martedì 8 dicembre 2009

Abolire il Fondo unico per lo spettacolo, in favore del mercato e del federalismo


pubblicato il 4 dicembre 2009 da LIBERTIAMO


Confesso immediatamente un mio “peccato originale”: agli inizi della mia carriera d’imprenditore cinematografico ho più volte attinto al famigerato Fus (il Fondo Unico per lo Spettacolo, che finanzia il cinema, il teatro, la danza, l’opera lirica, la musica, il circo), realizzando con il concorso dei capitali pubblici una decina di film. Solo in seguito ho rinunciato a milioni di euro di fondi per una presa di coscienza – diciamo così – “ideologica”, ma non prima di essermi personalmente reso conto delle falle e delle storture di questo strumento, espressione del peggiore dirigismo nostrano. Quello delle commissioni di esperti delegate a valutare la realizzabilità e il valore artistico, sulla carta, di questo o quel progetto, è statalismo della peggior specie: come non vedere il prevalere di logiche clientelari (perpetuatesi anche dopo l’introduzione di maggiori automatismi, previsti dalla cosiddetta “riforma Urbani”) e lo scarso riferimento al merito?

Il Fus è uno strumento che mette l’industria culturale in una condizione d’inferiorità rispetto agli altri settori produttivi, perchè dirotta gran parte dei finanziamenti verso opere più o meno meritorie da un punto di vista artistico, trascurando quasi completamente il valore commerciale dei prodotti stessi e la sostenibilità finanziaria dei progetti. “Vige l’idea – scrive Filippo Cavazzoni dell’Istituto Bruno Leoni qualche tempo fa – che la cultura sia qualcosa di separato dall’impresa e quindi i numeri per la cultura non fanno conto”. È giunto invece il momento, per dirla ancora con Cavazzoni, “che anche la cultura abbia a che fare con una gestione oculata, che faccia riferimento a principi di efficienza come succede negli altri ambiti dell’economia italiana”.

Vi è una ben precisa ragione storica e culturale alla base dell’approccio dirigista che portò negli anni Ottanta all’istituzione del Fondo Unico per lo Spettacolo. La legge Corona del 1963 barattava gli aiuti statali, precursori del Fus, con il divieto di realizzare opere in lingua inglese, istituendo così una barriere normativa all’esportabilità della produzione italiana, fino ad allora la maggiore concorrente della cinematografia americana nei mercati mondiali. Non a caso, l’italiano di maggiore successo nel cinema, Dino De Laurentiis, ha più volte ricordato che quel provvedimento infausto determinò la sua delocalizzazione negli Stati Uniti e che sarebbe bastata (e, sotto un certo punto di vista, basterebbe ancora) l’abolizione di quel sistema per rilanciare l’industria nazionale.
La legge Corona è uno dei prodotti più tristi e biechi della mala politica consociativa italiana: il Pci e larga parte della sinistra contrabbandarono volentieri i contributi ai loro protetti, autori e registi, con la fine della competizione nell’industria cinematografica italiana, che fino ad allora si era retta su solidi prodotti di genere, in larga parte destinati ai mercati internazionali. Come superare l’attuale empasse, riconosciuta come tale anche dagli stessi dirigenti del cinema pubblico, come l’amministratore delegato di Cinecittà Luciano Sovena?

La risposta ce la fornisce, come sovente accade, il confronto con Stati Uniti d’America. La Louisiana, Puerto Rico, l’Arizona ed alcuni altri stati praticano un’intelligente politica di defiscalizzazione, che finanzia fino al 40 per cento dei budget per i progetti cinematografici, applicando il cosiddetto “tax shelter” (ovvero un metodo di riduzione dell’imponibile fiscale che si traduce in una riduzione nei pagamenti all’ente di riscossione) che in passato hanno dato ottimi frutti in Canada e in Germania. A chi, fatalmente, opporrà l’osservazione che questa politica privilegi unicamente le opere più squallidamente commerciali, si può ricordare che molti dei primi film di autori come Rainer Werner Fassbinder o David Cronenberg vennero realizzati proprio grazie all’utilizzo di tali fondi.
La risposta risiede, quindi, ancora una volta, nella defiscalizzazione e nel federalismo economico, perché la gestione dei fondi dovrebbe, a mio modo di vedere, essere delegata alle Regioni, per un principio di sussidiarietà e di eterogeneità delle varie realtà italiane: il fattore occupazionale nel settore dei media è preminente nel Lazio, ad esempio, assai meno in Basilicata o in Trentino. E le Regioni – come mostra il caso della Sicilia e dei fondi europei per Baaria di Tornatore o per le opere di molti altri autori, dal tedesco Wenders al siciliano Pasquale Scimeca – hanno una maggiore progettualità. La stessa osservazione è valida per i teatri lirici e di prosa e per le orchestre, quasi sempre espressione di un territorio ben circoscritto. Qualcosa sta già avvenendo, in effetti: contestualmente alla graduale ma continua riduzione del Fus statale stanno sorgendo diversi Fus regionali (la Lombardia, ad esempio, ha creato il Furs, Fondo unico regionale per lo spettacolo). Capiremo presto se questo fenomeno “sussidiario” migliorerà anche le logiche di distribuzione dei fondi o si tradurrà in una replica su scala regionale dell’inefficiente gestione statale.

Il ministro Bondi sta portando a termine le riforme iniziate dal predecessore Rutelli ed è appena entrato in funzione un primo strumento, interessante, sebbene insufficiente: il “tax credit”, ovvero un credito fiscale conferito alla società di produzione che può arrivare fino al dodici per cento delle spese affrontate per la realizzazione di un film. Esiste, a dire il vero, anche la previsione di un “tax shelter”, la cui attivazione è però condizionata all’emanazione di un regolamento (con buona dose di perversione burocratica, esso dovrebbe attingere proprio al morente Fus, sempre più esiguo). Pur operando tra questi mille ostacoli, a Sandro Bondi va riconosciuto il merito di essersi assunto la responsabilità dell’industria culturale del Paese in tempi di vacche magre. Egli, tuttavia, può partire proprio da questa iniziale condizione di debolezza per un’azione politica volta a rivoluzionare – in senso liberale e di mercato – l’intero settore.

Diritti d’autore, proprietà intellettuale e libertà digitale: la politica di domani

pubblicato il 5 ottobre 2009 da LIBERTIAMO


Talvolta l’Europa viene scossa dal vento della novità: temi politici inediti si presentano come clamorosamente urgenti. Negli anni Ottanta apparve il fenomeno dei Verdi, tuttora importante, soprattutto in Nord Europa e in Francia, dove, sotto la guida di Cohn-Bendit, gli ecologisti hanno recentemente ottenuto una clamorosa affermazione elettorale. Quella guida che in Italia, senza dubbio, è mancata e la cui assenza porterà, fra pochi giorni, allo scioglimento del partito.
Dopo più di vent’anni, veniamo di nuovo messi di fronte a una dirompente novità: la libertà digitale. Nelle scorse elezioni europee, il Piratpartiet di Falkvinge ha ottenuto in Svezia un risultato lusinghiero, diventando la terza forza politica del Paese ed eleggendo un proprio rappresentante a Bruxelles. Anche in altri Paesi sono nate formazioni simili, che hanno, almeno per ora, riscosso minore successo: del resto, non hanno potuto beneficiare dell’enorme caso mediatico di The Pirate Bay e del conseguente processo.

Mi sembra indubbio, però, che ci troviamo di fronte ad una nuova generazione delle associazioni per i diritti civili. Si tratta di un dato politico di estrema rilevanza, che contrasta con il tiepido interesse finora mostrato dalle forze politiche nostrane. In Italia l’informatizzazione di massa si è realizzata solo in parte e, a prender per buono il sondaggio commissionato qualche mese fa da Il Corriere della Sera, il mezzo telematico è ancora poco influente sulle decisioni dell’elettorato italiano: durante la recente tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo, infatti, solo poco più del tre per cento degli elettori italiani si sarebbe informato sulla rete e sarebbe stato in qualche modo influenzato da essa. Lo stato delle cose è destinato con ogni probabilità a mutare ed è facile prevedere che, da qui a qualche anno, il consumo di informazione sulla rete continuerà a crescere e a diventare sempre più influente nel formarsi delle coscienze politiche e delle scelte elettorali.

Se i diritti digitali, intesi come diritto all’accesso alla tecnologia della rete, sono più o meno pacificamente riconosciuti almeno ai cittadini del pasciuto Occidente, è ancora molto dibattuta la libertà di condivisione di materiale protetto dalle leggi sulla proprietà intellettuale (musica, film, letteratura, programmi informatici, ecc.). L’utilizzo che milioni di giovani fanno della rete porterà, per forza di cose, all’aggiornamento del concetto di copyright e alla rivisitazione del principio dell’equo compenso.

E’ stata di recente approvata in Francia la legge Hadopi 2 (o, per meglio dire, la legge che istituisce l’Haute Autorité pour la diffusion des ouvres et la protection des droits sur l’Internet), dopo essere stata bocciata, nella sua prima presentazione, dal Consiglio Costituzionale. La legge, voluta da Sarkozy, prevede dopo tre infrazioni la disconnessione (per un periodo fra i due mesi e un anno) dell’utente sorpreso a scaricare illegalmente materiale informatico coperto dal diritto d’autore. Se, per certi versi, si tratta di una legge liberticida, d’altra parte proteggere la proprietà (intellettuale, in questo caso) è uno dei pochi compiti che persino i più fervidi antistatalisti riconoscono allo Stato. Inoltre, l’Hadopi finirà con il rappresentare un’istituzione perlomeno inquietante, se rapportata al diritto alla privacy, all’anonimato e alla segretezza della corrispondenza, principi che il Piratpartiet ha immediatamente fatto propri.
La sinistra francese ha avanzato una controproposta, davvero poco liberale (e ci mancherebbe): introdurre una tassa di scopo sulle società di telecomunicazione (la cosiddetta broadband tax). Un provvedimento che, prevedibilmente, finirebbe per gravare sulle tasche dell’utente consumatore. Per non menzionare il fatto che, se applicato nel nostro Paese, un tale meccanismo rischierebbe di essere gestito da uno dei più immobili baracconi parastatali, la SIAE (Società Italiana Autori ed Editori).
Anche la legge di Sarkozy presenta, a mio modo di vedere, un enorme limite, che risiede nella sua difficile applicazione, volendo coercitivamente normalizzare un fenomeno di massa. Mi sia consentito un paragone: il proibizionismo sulle droghe leggere non ha affatto impedito che una larghissima fascia della popolazione giovanile ne faccia uso. Non è un caso se, già l’anno scorso, la polizia norvegese si è rifiutata di impegnarsi nell’accalappiare i pirati occasionali.
Si tratta, dunque, di un problema molto complesso e di difficile soluzione, anche perché, al di là del Far West attuale, sinora non esistono modelli di riferimento applicati. Con la crescente ed irrefrenabile espansione della rete e il continuo aumento dei suoi frequentatori, è un tema che appare essere destinato a divenire centrale nel dibattito politico europeo (in alcuni Paesi lo è già) e, prima o poi, anche italiano.

Lentamente, qualcosa inizia a muoversi anche da noi. Risale a qualche giorno fa la presentazione di un’indagine Nielsen commissionata dall’Osservatorio Permanente sui Contenuti Digitali secondo la quale un quarto circa degli italiani connessi in rete sarebbe disposto a pagare per consumare film su internet, come sottolineato da Lamberto Mancini, segretario generale dell’Anica (l’unione delle industrie audiovisive): un mercato legale e dai costi estremamente competitivi ed allettanti per i consumatori è senza dubbio una delle strade da seguire.

Ieri, il mio 8 Settembre

pubblicato il 9 Settembre 2009 da Radicalweb

Ieri è stato l’8 Settembre, data che molti considerano fatidica e cruciale nella Storia del nostro Paese. Sinceramente, non mi sono ricordato fino a tarda sera, quando la ricorrenza è stata ricordata dal coraggiosissimo compagno radicale Piero Bonano durante la consueta riunione del martedì.

Mi è parso quindi naturale interrogarmi sul perché, al di là della mia frenetica giornata lavorativa, non mi fossi soffermato nemmeno un attimo col pensiero su quel giorno, che ha segnato inesorabilmente la drammatica agonia del fascismo e la rinascita democratica dell’Italia.

Sono arrivato alla conclusione, forse un po’ apodittica e troppo personale, che l’8 Settembre non ha significato molto per l’Italia. Nel nostro disgraziato Paese, infatti, sono ben vive e presenti molte delle strutture, e delle corrotte incrostazioni, del Regime Fascista. E questo, beninteso, non dall’avvento del Cavaliere, ma, in forma già clamorosa, sin dagli anni Cinquanta, quel periodo che, Pannunzio dixit, vide l’avvento della “repubblica delle pere indivise”, ovvero di quel Regime Partitocratico (con la nascita, come di recente ha scritto Pannella, di tanti “piccoli PNF”) che attanaglia la nostra società, rendendola ingessata.

Qualche anno fa, Bersani tentò delle timidissime liberalizzazioni (non arrivando nemmeno a sfiorare corporazioni odiose come assicurazioni, banche, notai, giornalisti: si limitò a farmacie, taxi e pochissimo altro) ottenendo risultati pressocché nulli, in buona parte a causa delle resistenze, anche politiche, di quelle corporazioni stesse. Per questo, oggi l’Italia è un Paese sempre più polveroso e immobile, con una Giustizia (amministrata dalla corporazione dei magistrati e dall’Ordine degli Avvocati) ormai putrescente, come dimostrato dalle recenti inchieste radicali sullo stato delle carceri e dalla conclamata impossibilità, per un sistema giudiziario sfasciato, di gestire i milioni di processi ad oggi pendenti.

Medici, avvocati, notai, farmacisti , architetti, commercialisti, giornalisti, con i loro Ordini di fascista memoria, il sistema previdenziale burocratico e centralizzato statalmente, il clientelismo, la corruzione e il nepotismo nella politica, il rigido prevalere di uno Stato Etico (dopo la legge sulla procreazione medica assistita, è in approvazione un obbrobrioso finto testamento biologico), la criminalità e la violenza di Stato con gli omicidi politici del Ventennio, quelli del Sessantennio e la perpetua aggressione dei cittadini-sudditi (penso a chi è morto in carcere dove era detenuto per autocltivazione di marijuana o oltraggio a pubblico ufficiale), gli interventi dirigisti dell’economia sono tutte eredità del Fascismo bellamente perpetuatesi in sessant’anni di Partitocrazia.

Un regime putrido deve e dovrà necessariamente essere sovvertito da una Rivoluzione Liberale che ad oggi appare come un’Araba Fenice visibile solo a qualche folle visionario. Ma pazienza. Dicevano lo stesso, negli anni Sessanta, alla nascita della LID, quella Lega Italiana del Divorzio che, poco più di un decennio dopo, fu l’architrave di una clamorosa e frastornante vittoria liberale e laica.

Infine, voglio ringraziare l’amico Carmelo Impusino che, sorvolando sulla mia pigrizia e lentezza nel portare avanti il comune progetto di creare un’associazione di blogger e internauti di area liberale radicale (e non parlo intenzionalmente di “galassia” in quanto ci rivolgiamo anche ai “non pannelliani”), ha fatto una cosa molto radicale: se n’è fregato, si è rimboccato le maniche e ha creato questo spazio, facendomi una bellissima sorpresa. Sono sicuro che con Domenico, Umberto, Cosimo, Luigi e tutti gli altri amici radicali di Politica in Rete sapremo renderlo qualcosa di unico.

Da parte mia, siccome non ho un blog personale, posterò qui gran parte dei miei piccoli articoli, sperando che possano fornire qualche spunto di riflessione a tutti voi, che siete spesso molto più brillanti di me.

Radicali nel Pdl: antica frequentazione. Il mistero è la diffidenza del Pd

pubblicato il 9 settembre 2009 da LIBERTIAMO


Il radicalismo è oggi, a tutti gli effetti, una componente del Popolo della Libertà, partito a vocazione maggioritaria, ben espressa nelle ultime tornate elettorali in cui il PdL si è rivelato la forza di maggioranza relativa.
Mi riferisco al radicalismo che affonda le sue radici nel partito “storico” di Cavallotti e che è poi “rinato” nella metà degli anni Cinquanta con il gruppo de Il Mondo.
I Riformatori Liberali prima e Libertiamo poi sono radicali a pieno titolo, basti scorrere i curricula politici dei fondatori, che esprimono sicuramente posizioni politiche spesso diverse, a volte molto distanti dal resto del PdL. Eppure, come ha ricordato lo stesso Silvio Berlusconi, qualche mese fa, durante l’assemblea fondativa di Libertiamo, il Popolo della Libertà è ben felice, esprimendo per l’appunto compiutamente la sua vocazione maggioritaria, di poter annoverare al suo interno i radicali liberali di Libertiamo. Del resto, le prese di posizione più “scomode” di Benedetto Della Vedova (non ultime, quella piuttosto recenti su Eluana Englaro e sul testamento biologico) hanno trovato ampia eco all’interno del PdL stesso (viene da pensare in primis a Gianfranco Fini).Le idee liberali, liberiste, libertarie sono (e, temo, resteranno) largamente minoritarie in Italia, come del resto sono sempre state. Negli anni Settanta, in cui i radicali ottennero veri e propri trionfi su temi laceranti per la società italiana di allora quali il divorzio e l’aborto, il Partito Radicale superava a stento l’uno per cento dei consensi nelle elezioni politiche. Questo dimostra che il liberalismo radicale sa essere, su alcune questioni dirimenti, un vero e proprio motore di progresso e modernità, proprio per la forza innovativa e rivoluzionaria delle sue proposte, al di là dei successi elettorali, dell’occupazione delle poltrone e del radicamento territoriale.
E’ per questo che il PdL odierno ha maledettamente bisogno di Libertiamo, che porta con sé la parte più alta e nobile della destra moderna, quella di Friedman, di Hayek, di von Mises, ed esprime con Benedetto Della Vedova (ed Antonio Martino) una rappresentanza parlamentare davvero liberista.
Lo stesso elettorato radicale, posizionato da sempre su una linea di confine fra destra e sinistra, era ben più numeroso nel ’94 e nel’96 (quando i radicali concorrevano alle elezioni da alleati dell’allora Casa delle Libertà) arrivando a superare agevolmente il 3%, mentre il dazio maggiore in termini elettorali fu pagato con la svolta socialista della Rosa nel Pugno (che raccolse grossomodo, in termini percentuali gli stessi consensi ottenuti dalla Lista Bonino alle scorse europee).
Questo Berlusconi, Fini e l’intero Pdl lo sanno benissimo e hanno saputo far tesoro della cultura riformatrice e liberale di quella parte del mondo radicale più lontana dal liberalsocialismo, prossima alla politica liberista, già compiutamente abbracciata dal Partito Radicale negli anni Novanta (quando si parlò di “svolta liberista” dei radicali).
Oltre al PdL esiste in Italia un altro grande partito a vocazione (in questo caso sedicente) maggioritaria: il Partito Democratico, che però diffida enormemente dei radicali.
Si tratta di una difficoltà di rapporti che si manifestò fin dalla nascita del Pd, quando Marco Pannella, per fare onore alla sua storia (aveva auspicato per anni la nascita in Italia di un Partito Democratico sul modello statunitense) chiese coerentemente di candidarsi alla segreteria. Richiesta che venne puntualmente respinta dalla classe dirigente piddina, al pari di quella di Antonio Di Pietro e, qualche anno dopo, di Beppe Grillo.
Resta un mistero capire come possa un partito che vorrebbe essere maggioranza chiudere le porte a tutti quelli che bussano alla sua porta, i quali sembrano essere rei di un solo misfatto: non poter esibire un passato ex-comunista o ex-democristiano.
Curiosamente, il peccato originale del liberalismo viene perdonato in ambito giovanile, con la candidatura (per quanto ostacolata, sudata, contestata e sofferta) della radicale Giulia Innocenzi; ma poi esso pare tornare preponderante nel corso delle ultime elezioni europee, quando il Pd ha preferito pagare un ulteriore prezzo in termini di calo di consensi, piuttosto che tenere fede alle promesse di un anno prima (con Bettini che parlò di trecentomila preferenze per confermare Pannella in Europa), arrivando a parlare di “divorzi consensuali” mai avvenuti.
Il progetto veltroniano di un grande e moderno partito di sinistra non era affatto da buttar via, ma, a mio modo di vedere, non è stato concretizzato proprio per la sospettosa e preconcetta chiusura alle varie anime della sinistra, e in primo luogo a quella liberale dei radicali. Una sinistra che non saprà essere anche, compiutamente, liberale sarà destinata a esprimere la sua reale vocazione: quella di essere una minoranza, incapace di far proprie le istanze, per rimanere in un ambito italiano, almeno di Carlo Rosselli e di Guido Calogero.